Dal 3 al 17 giugno nella Sala del Mosaico di Palazzo Doria a Loano sarà allestita la mostra “Macchine volanti” di Leonardo Checchia.
Nello spiegare il concept dell’esposizione, Checchia parte da alcuni versi della poesia “Sono Gagarin, il figlio della terra” di Evghenij Evtusenko: “Sulla terra mi sono schiantato, / quella che per primo ho visto tanto piccola, e la terra non me l’ha perdonata./ Ma io perdono la terra, / sono figlio suo, in spirito e carne, e per secoli prometto / di continuare il mio volo”.
“Aggiriamoci ancora con ‘i piedi ben saldi’ sulla terra. Qui, dove da sempre ancoriamo le speranze, le nostre piccole o incrollabili certezze (almeno quelle che per molto o breve tempo ci appaiono tali) e dove potendo, quasi tutti o in molti, sceglieremmo di restare. Traiettorie di volo sempre… La diversa prospettiva del nostro sguardo che ci differenzia. ‘Volare’ è una necessità dello spirito, che possiamo esercitare persino in condizioni di costrizione estrema. Volare con il pensiero, con lo sguardo, una carezza, con dei gesti che ci danno forza, con un dolore che prima o poi ci farà atterrare. Conquistare la vetta…di una montagna, di un albero, di una carriera. Più su, sempre più su, al culmine dei pensieri o del cuore di qualcuno. Voliamo in molte direzioni…persino verso il basso, quando ci sembra che la vita più non ci sostenga. La direzione è dritta, fiduciosa, se proviamo a tendere una mano, o scarta di lato, faticosa, se distogliamo lo sguardo. Le scorgiamo nello spazio di orizzonte giallo, rosso, denso di colori inusuali, le nostre piccole e veloci ‘macchine volanti’ attraversare i cieli indefiniti dei nostri sogni, che ancora e per sempre rinnoviamo”.
La mostra, che gode del patrocinio dell’assessorato a turismo, cultura e sport del Comune di Loano, sarà visitabile negli orari di apertura di Palazzo Doria, dal lunedì al venerdì dalle 7.30 alle 19.30.
Leonardo Checchia è nato nel 1962 a Foggia, la città “dalla quale sono partito e non mi sono ancora fermato. Vivo, ora, temporaneamente a Trento. I colori mi hanno sempre affascinato. Li guardavo da bambino chiedendomi cosa contenessero, di che cosa fossero fatti. Che cosa c’era nel rosso, da renderlo rosso? E così per gli altri colori. L’atelier di mio padre è stato il primo luogo di studio. Lo ricordo disegnare – come un titano – su enormi tavoli disposti in una grande stanza con soffitti altissimi, quelle bellissime geometrie che si sviluppavano su tessuti pregiati fino a concretizzarsi in veri e propri capolavori di abiti”.
“Rigore compositivo e sapienze tecniche molteplici, tutte perfettamente utilizzate all’occorrenza. I suoi famosi ‘trucchi’ che consentivano la perfetta vestibilità a chiunque, anche in presenza di particolarissime fisionomie corporee. Il suo laboratorio era il mio mondo fiabesco di bambino. Trovavo sempre qualcosa che catturava la mia fantasia. I rocchetti di filato dalle svariate tonalità, le ‘forbici dei giganti’ appartenute a chissà quali entità sconosciute o piuttosto i meravigliosi campionari di tessuti, che sfogliavo continuamente, ipnotizzato dalle geometrie, dai colori e dalla bellezza delle stoffe, delle lane di cachemire, al tatto. La mia preferita, però, era solo una, quella che scompariva spesso e che mio padre era costretto a cercare invano fino a quando non mi costringeva a restituirgliela. Splendida, insostituibile, non l’avrei ceduta per nulla al mondo, neppure in cambio di tutte le altre o dei pezzi di ricambio delle macchine da cucire (vere e proprie microsculture), che collezionavo di nascosto: la mazzetta di tessuti a trama Principe di Galles”.
“I primi contesti visivi sono quelli che continueremo a ‘riconoscere’. Il nostro campo visivo si delineeràprivilegiando sempre quelle immagini, profumi, suoni, tinte, di cui abbiamo fatto esperienza all’inizio della nostra vita. Come il giallo, la gamma degli ocra, colori che amo da sempre, ritrovo ‘evidenti’ e dei quali ho fatto esperienza – essendone stato interamente immerso – durante le mie corse sfrenate attraverso i campi di grano sterminati del Tavoliere pugliese. Vivere è un infinito ritrovare”.
“Il mio istinto è da autodidatta. Cerco sempre, se posso, di acquisire conoscenze attraverso percorsi di studio poco convenzionali. La mia formazione è prevalentemente tecnica, sorretta però, da profonde passioni letterarie, poetiche e musicali. E’ ancora nitida nella mia memoria, l’immagine di mio nonno, la sua sagoma indefinita, che fluttuava modificandosi continuamente a seconda delle variazioni musicali, che riprovava ossessivamente e che scrutavo attraverso i vetri opachi della sua stanza, seduto per ore nella mia piccola sedia a dondolo, mentre si esercitava nello studio del sassofono. La musica, mai, ha provato ad insegnarmela. L’ho praticata da adulto, ormai troppo tardi, prendendo lezioni di violoncello, ma con risultati, purtroppo, da dilettante curioso. Frequenti i miei cambi di residenza e prospettiva anche geografica, di domicilio interiore ed umano”.